È il più grave attacco contro la missione delle Nazioni Unite in Libano dal termine della tregua, lo scorso 27 novembre. Quattro granate israeliane sono cadute martedì all’interno della zona cuscinetto lungo la Linea blu, al confine tra Libano e Israele, a pochi metri dai convogli del contingente Unifil.
Secondo quanto comunicato dalla missione ONU, tre ordigni sono esplosi a circa cento metri dai soldati, una quarta a non più di venti metri. L’episodio è avvenuto nei pressi del villaggio di Marwahin, nel sud del Libano.
Israele nega un attacco deliberato
Da Tel Aviv è arrivata la smentita. Avichai Adraee, portavoce arabofono dell’esercito israeliano, ha dichiarato che non si è trattato di «un bombardamento contro le forze Unifil», ma di un’azione difensiva dopo aver «individuato attività sospette nella zona». Le granate, ha aggiunto, sarebbero state “assordanti” e usate solo per «eliminare una potenziale minaccia».
Unifil, tuttavia, sottolinea che ogni movimento dei caschi blu avviene in coordinamento con Israele e Libano e che entrambi i governi vengono informati in anticipo di tutte le operazioni. La spiegazione israeliana, insomma, non convince.
Le reazioni italiane
L’Italia, che partecipa alla missione con un proprio contingente, ha espresso ferma condanna.
Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha parlato di «attacchi inaccettabili contro una forza che lavora per la stabilità del Libano». Più diretto il ministro della Difesa Guido Crosetto, secondo cui «non si è trattato di un errore ma di una scelta precisa».
Non è la prima volta che Unifil denuncia la natura intenzionale degli attacchi israeliani. Nell’ottobre scorso, i carri armati di Tel Aviv avevano colpito le torri di osservazione del quartier generale di Naqora, ferendo cinque soldati ONU. In quell’occasione il portavoce della missione, Andrea Tenenti, aveva parlato esplicitamente di “azione deliberata”.
Unifil verso il ritiro
L’attacco arriva pochi giorni dopo il rinnovo del mandato Unifil fino al 2026, con l’obiettivo di concludere tutte le attività entro l’anno successivo. La decisione rientra in un piano più ampio di riduzione dei fondi Usaid e Onu nella regione, avviato dopo l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca e formalmente operativo dallo scorso marzo.
Il governo israeliano ha accolto con favore la prospettiva di un ridimensionamento della forza ONU, che da anni considera un ostacolo strategico alla libertà di manovra sul confine nord.
Un Libano fragile e sotto pressione
In parallelo, il Libano attraversa una fase politica delicatissima.
Ad agosto, il governo di Beirut ha approvato un piano statunitense per il disarmo di Hezbollah, da completare entro la fine dell’anno, in cambio del ritiro israeliano da cinque villaggi occupati e della cessazione dei bombardamenti.
Ma a oggi Israele non ha rispettato gli impegni. Hezbollah, dal canto suo, accusa il governo libanese di cedere alle pressioni occidentali e ha annunciato che non consegnerà le armi.
Nel frattempo, un pacchetto straordinario di aiuti internazionali – finanziato da Stati Uniti, Francia, Arabia Saudita e Qatar – dovrebbe sostenere la ricostruzione delle zone più colpite dalla guerra: il sud, l’ovest del Paese e la Dahieh, la periferia meridionale di Beirut.
Il rischio di una nuova crisi
Nonostante una breve fase di stabilità economica, il Libano resta lontano dall’uscita dalla crisi finanziaria che lo ha devastato dal 2019.
Il possibile ritiro di Unifil, unito alla debolezza delle istituzioni e alla frattura tra esercito e Hezbollah, rappresenta un rischio concreto di destabilizzazione.
Gli scenari più temuti dagli osservatori internazionali sono due:
- Un nuovo conflitto interno tra fazioni libanesi.
- Una nuova invasione israeliana nel sud del Paese, favorita dall’assenza della missione ONU e dal ridimensionamento militare di Hezbollah.
Intanto, sui cieli di Beirut, il ronzio dei droni israeliani continua senza sosta. Un suono costante, a metà tra monito e minaccia, che ricorda a tutti che la guerra, in fondo, non è mai davvero finita.
