Con l’insediamento di Trump alla Casa Bianca per il suo secondo mandato presidenziale, l’approccio statunitense alla migrazione ha subito una svolta drastica, seppur in parte prevedibile, trasformando la politica migratoria in uno strumento strategico di proiezione del potere.
Sebbene le intenzioni dell’amministrazione Trump nei confronti di immigrati e richiedenti asilo negli Stati Uniti fossero già emerse chiaramente durante il suo primo mandato, alcune iniziative le resero particolarmente evidenti. Tra queste, la costruzione del muro al confine con il Messico, una priorità simbolica durante la campagna elettorale del 2016, e l’attuazione della politica di Zero Tolerance, introdotta a partire dal 2018.
Oggi, al centro di questa evoluzione ed inasprimento delle politiche di immigrazione, emerge il patto securitario tra Stati Uniti ed El Salvador, un’intesa che fin dagli arbori ha scosso giuristi, difensori dei diritti umani e scrutatori geopolitici nell’arena internazionale.
Il ritorno dell’Alien Enemies Act
Con l’ordine esecutivo del 20 gennaio 2025, “Protecting American People Against Invasions”, l’amministrazione Trump denuncia quella che definisce un’invasione criminale dal Centro America, indicando la Mara Salvatrucha MS-13 e le altre gang transazionali come minaccia alla sicurezza nazionale.
A marzo, Trump invoca l’Alien Enemies Act del 1798 che consente al presidente di detenere, sorvegliare o deportare stranieri di paesi “nemici” anche senza processo, in caso di guerra o minaccia. In base a questa norma, ordina la deportazione dei sospettati di appartenenza alle gang, che vengono dirottati nella prigione CECOT in El Salvador, gestita dal governo Bukele.
L’applicazione della legge ha sollevato seri dubbi costituzionali: il giudice federale James Boasberg ha emesso un’ingiunzione per bloccare le deportazioni, ma l’esecutivo ha, noncurantemente, ignorato il provvedimento, portando all’avvio di un processo per oltraggio alla corte.
Al contempo, organizzazioni come Human Rights Watch e l’ONU hanno denunciato l’operazione come violazione del diritto internazionale, segnalando l’assenza di processi e il mancato rispetto dello status di rifugiato per i soggetti deportati ed oggi detenuti alla CECOT
Il carcere CECOT come strumento geopolitico
L’accordo con El Salvador prevede che la prigione di massima sicurezza CECOT ospiti migranti esiliati dagli Stati Uniti, anche non salvadoregni.
CECOT, acronimo di Centro de Confinamento de Terrorismo, solleva interrogativi: sono davvero terroristi i deportati dagli USA? Le autorità salvadoregne classificano liberamente come tali molti detenuti, spesso senza prove concrete né effettivi legami con gang o nemmeno precedenti penali.
CECOT è parte della strategia propagandistica dello “stato forte che non tollera criminalità” di Bukele, ma con l’asse Trump-Bukele il carcere diventa anche un’estensione controversa del sistema detentivo statunitense. Con la particolarità che la sua collocazione estera consente a Washington di eludere responsabilità sulle violazioni dei diritti umani commesse al suo interno.
La convergenza ideologica Trump-Bukele
Trump e Bukele sono entrambi leader populisti, che fondano le proprie radici ideologiche e la catena di policy making nazionale in una visione politica securitaria, di contenimento migratorio e di scarso interesse verso le mediazioni internazionali. L’offerta di Bukele di ospitare criminali americani nella megastruttura carceraria CECOT da un lato, rafforza il suo capitale politico interno, esibendo un’immagine di leader capace di controllare la criminalità al punto da farsi carico anche di quella straniera; dall’altro, configura un chiaro interesse economico, poiché il pagamento da parte degli Stati Uniti per il mantenimento dei detenuti garantirebbe risorse preziose per finanziare e legittimare il costosissimo sistema carcerario salvadoregno. Inoltre, l’alleanza consente a Bukele di posizionarsi come partner securitario strategico rafforzando così la sua influenza geopolitica in un contesto internazionale in cui El Salvador, altrimenti, resterebbe marginale.
Diffusione del modello CECOT e rischi futuri
La politica di deportazione degli Stati Uniti non è stata accolta con leggerezza da altri stati sudamericani, come la Colombia che ha espresso contrarietà verso le deportazioni di massa o la Costa Rica che ha richiesto tempestivamente un riesame dei trattati bilaterali di rimpatrio.
Le preoccupazioni dell’arena internazionale si spostano però verso Perù ed Ecuador, che risultano ispirati dal modello carcerario di Bukele e sembrano pronti a considerare accordi simili, così da servirsi del CECOT per incarcerare i propri criminali. Nonostante le denunce internazionali su torture e sovraffollamento nella prigione, Washington promuove queste nuove intese come parte di una strategia regionale di sicurezza, con Bukele in prima linea nel contenimento della criminalità transnazionale.
Deportazioni, sicurezza nazionale e dottrina del controllo
La politica delle deportazioni massicce di Trump, presentata ai cittadini come indispensabile lotta alla criminalità, emerge sempre più chiaramente come una strategia geopolitica di collaborazione con stati con leader affini – come El Salvador – ed isolamento per quelli considerati ostili.
L’asse Trump-Bukele ci dimostra come la dottrina del controllo sta portando l’incarcerazione di immigrati ad essere uno strumento di forza politica, dove la noncuranza verso processi giusti ed equi e la stessa negazione di questi ultimi lascia intendere un nuovo capitolo, forse non così democratico, della seconda amministrazione Trump.