Le recenti politiche protezionistiche sbandierate dall’amministrazione Trump sembrano indicare un progressivo disimpegno degli Stati Uniti rispetto a quel modello di globalizzazione che, alla lunga, avrebbe favorito le economie straniere – in primis le imbelli cancellerie europee – a discapito del benessere complessivo della popolazione americana. Una post-globalizzazione, segnata da una minore integrazione tra le diverse economie mondiali, sembra ormai alle porte. Tuttavia, difficilmente gli Stati Uniti potranno, almeno nel breve periodo, concedersi un cambiamento di traiettoria così netto, pena il venir meno del ruolo di egemone globale che ha caratterizzato nell’ultimo secolo la fortezza nordamericana.
Tre considerazioni, in particolare, sembrano smentire questa ipotesi:
La prima riguarda la politica estera: da un lato la violenta campagna aerea americana intrapresa nei confronti degli Houthi per riprendere il controllo dello stretto di Bab el-Mandeb; dall’altro, le politiche imperiali condotte nei confronti di Panama, per ristabilire la propria influenza a discapito della consistente presenza cinese, e della Groenlandia, in previsione della futura centralità della rotta artica. Se la globalizzazione si basa sul controllo delle rotte commerciali, e quindi dei mari (leggi: gli stretti), dove transitano il 90% delle merci globali, non sembra che gli Stati Uniti abbiano intenzione di abdicare al loro ruolo.
In secondo luogo, il peso dei dazi. Mentre le misure imposte alla Cina, principale rivale geopolitico, si configurano come tattiche e sono condivise dalle elefantiache strutture dell’amministrazione, e perciò destinate a durare, i provvedimenti rivolti all’Europa, non una novità in termini assoluti, sembrano avere un carattere per lo più simbolico, tesi a soddisfare la rabbia che cova nella pancia di un paese attraversato da una crisi profonda, ma destinati ad affievolirsi nel breve periodo.
Infine, la ventilata reindustrializzazione americana si scontra col tramonto della figura operaia, specializzata e non, come ha recentemente riassunto Allysia Finley in un’analisi pubblicata sul Wall Street Journal con il titolo “A Good Man for U.S. Manufacturing Is Hard to Find”:
“Il Presidente Trump proclama che i suoi dazi riporteranno i posti di lavoro manifatturieri negli Stati Uniti. Buona fortuna a trovare lavoratori per occupare questi posti. Un lamento comune tra i datori di lavoro, soprattutto nel settore manifatturiero, è che non riescono a trovare lavoratori affidabili, coscienziosi e in grado di superare un test antidroga. Le donne single potrebbero capire: trovare un buon lavoratore, come un buon marito, oggi è diventato difficile”.
Trump ci ha abituato a colpi di scena e sterzate improvvise, ma difficilmente potrà svincolarsi dalla linea politica dettata dagli apparati, quello “stato profondo” contro cui si è scagliato più volte in campagna elettorale. Gli Stati Uniti, molto probabilmente, resteranno ancora a lungo un paese importatore di ultima istanza, generando dipendenza, e la globalizzazione, seppur rimodulata, il modello di riferimento della loro postura imperiale.