Il “Premio Nobel per la Pace”, da Kissinger a Obama, di credibilità, francamente, non è che ne avesse più molta. Tuttavia, assegnarlo davvero a Donald Trump (come si ventilava negli ambienti dell’estrema destra mondiale) sarebbe stato un passaggio storico: in quanto avrebbe significato legittimare il pensiero trumpiano agli occhi dell’opinione pubblica mondiale. Beninteso: il fatto che non l’abbia vinto il Tycoon è di per sé un sollievo, ma la scelta del candidato vincente è riuscita nell’incredibile effetto di cancellare, con un colpo di spugna, tutto il sollievo per la sua mancata nomina.
Ed ecco che allora il “trump pensiero” viene ugualmente legittimato, sebbene per via traverse e in maniera più “occulta”. Premiare una “trumpiana”, perché forse premiare direttamente Trump sarebbe stato troppo. Il Nobel per la Pace lo ha vinto María Corina Machado, per tutti “MariCori”. Una delle personalità più in vista non solo del Venezuela, ma probabilmente di tutto il Sud America. Machado è riuscita a farsi una pessima nomea in Occidente (anche se non in tutto, sia mai) nonostante sia costretta (come tutti gli altri venezuelani) a convivere con il regime di Nicolás Maduro: e ce ne vuole.
Golpista, fu tra i firmatari (nel 2002) del cosiddetto “Decreto Carmona” con il quale si legittimava la presa del potere di Pedro Carmona: economista vicino a Washington, dietro alla “cupola finanziaria” che tirava le fila del tentato golpe. Nel periodo che va dal 2014 al 2017 è stata uno dei volti principali delle violente rivolte (volte a destabilizzare il paese) scatenata dalla destra reazionaria, con il supporto indiretto (si fa per dire) sempre degli Stati Uniti: che imposero durissime sanzioni economiche al paese nel tentativo (parzialmente riuscito, anche se poi le proteste rientrarono) di far rivoltare la piazza.
Secondo molti osservatori, quella di Machado sarebbe una “vittoria per procura” in nome del presidente statunitense. Nemico numero uno (fra quelli all’estero) di Maduro, come sottolineato dalla stessa Machado in un’intervista del 2024 al quotidiano brasiliano Estadão: in cui definì lo stesso Trump “un alleato costante della causa venezuelana”. Non solo: quando gli USA (sempre su ordine di Trump) hanno schierato navi militari americane ai confini con il Venezuela, Machado ha difeso il gesto: arrivando a definire “necessario” un intervento militare straniero per rovesciare il governo di Maduro.
Sia chiaro: non sono aprioristicamente contrario all’uso della forza per rovesciare un regime dittatoriale, ma, pur riconoscendone la necessità in alcune circostanze, non pretenderei certo che mi venisse assegnato il Nobel per la Pace. Non si fa fatica a comprendere la perplessità generalizzata di fronte a una nomina che più politica non si può, mentre si fa invece fatica a capire il perché di tanta indignazione ogni qualvolta che qualcuno sottolinea dei dubbi più che legittimi sulla paternità del premio.
L’attrazione fatale che buona parte dell’opinione pubblica occidentale nutre nei confronti di chi si oppone a un regime (basti vedere la deificazione di Alexei Navalny in Italia), a prescindere da quanto deprecabile sia l’oppositore, fa apparire l’opposizione alle autocrazie come prese di posizione ideologiche e non figlie di uno ostentato schema di valori. Machado, con le sue posizioni estremiste e la sua postura chiaramente antidemocratica, è la nemesi dell’archetipo pacifista e il suo profilo è totalmente incompatibile con la tipologia di alloro di cui è stata insignita. Eppure non si riesce a uscire dalla cartoonesca e populistica dicotomia del “bene” contro il “male”, dove non è possibile criticare un pericoloso estremista senza venire immediatamente accusati di parteggiare per il tiranno di turno.
