Lo scorso dicembre i ribelli di Hayat Tharir al-Sham e della Coalizione Nazionale Siriana hanno conquistato Damasco, spodestando l’ormai ex dittatore Bashar al-Assad dopo 20 anni di regime e rendendo così la presenza militare russa in Siria sempre più carica di incertezze. L’opposizione siriana, fatta eccezione per le forze curde, ha infatti preso il controllo di sempre più territori nel corso di un’avanzata fulminea che ha sciolto come neve al sole ciò che restava dell’esercito lealista.
Le principali formazioni ribelli ed i relativi schieramenti armati sono stati formati, coordinati e supportati in gran parte dalla Turchia, assai desiderosa di estromettere la Russia dal proprio cortile di casa, ora che il Cremlino è distratto dalla difficile campagna bellica in Ucraina e con l’Iran, altro alleato dell’ex regime, impegnato in altri teatri nel confronto strategico con Israele.
Ora che i ribelli hanno preso il controllo del territorio nazionale che va dal Mediterraneo all’Eufrate, le due basi militari russe nelle città costiere di Latakia (aerea) e Tartus (navale) si trovano di fronte alla grave possibilità che i soldati di Mosca, ma soprattutto le navi da guerra ivi ancorate (tre fregate, due petroliere e un sottomarino) potrebbero doversi trovare una nuova casa. Sostituire la base aerea di Latakia sarebbe il problema minore in quanto logisticamente più facile. A partire da gennaio 2025, infatti, la maggior parte delle capacità di difesa aerea, radar e ricognizione sono state ritirate, dal momento che le forze locali di Hayat Tahrir al-Sham controllano le alture circostanti, rendendo quindi vulnerabili le operazioni russe e limitando l’efficacia stessa della base.
L’incognita più grave, tuttavia, riguarda la base navale di Tartus: costruita nel 1971 dall’URSS in seguito a un accordo con Assad senior, può ospitare fino a 11 navi militari di grande tonnellaggio, inclusi sottomarini nucleari, specialmente dopo l’accordo di ampliamento della base siglato nel gennaio 2017, la cui concessione alla Russia era stata rinnovata per 49 anni e recentemente revocata dal nuovo governo siriano. Oggi le poche navi rimaste a presidiare la base stazionano ancorate al largo di essa, a testimoniare la condizione di insicurezza che caratterizza gli asset militari della Marina di Mosca, la cui presenza è stata messa ulteriormente in discussione dopo l’accordo di concessione del porto di Tartus all’operatore emirati DP World, tra i più grandi al mondo, da parte dell’Autorità Portuale Siriana e che investirà 800 milioni di dollari nello sviluppo del terminal e dei servizi logistici.
Sicuramente il nuovo governo presieduto da al Sharaa utilizzerà le concessioni delle basi come armi di pressione diplomatica nei confronti della Russia, a cui ha richiesto la cancellazione dei 23 miliardi di dollari di debito accumulati dall’inizio della guerra civile, oltre alla ripresa dell’export di greggio e grano a prezzi agevolati.
Sarà difficile per la Russia sottrarsi alle trattative, data la complessità nel trovare una valida alternativa alle suddette basi all’interno del Mediterraneo, mare “caldo” il cui presidio militare in piano stabile è sempre stato anelato dalla Russia sin dai tempi degli Zar, e dal quale oggi essa rischia di vedere compromessa la propria presenza a tempo indeterminato. Proprio come il Mar Baltico, infatti, il Mediterraneo si configura sempre più come un “lago” NATO, ovvero uno specchio d’acqua la cui maggioranza dei paesi rivieraschi sono membri dell’Alleanza Atlantica o suoi partner, come ad esempio Israele e Cipro. Non si intende qui ovviamente soltanto la mera maggioranza numerica (14 paesi Nato sui 22 rivieraschi), ma anche la loro schiacciante superiorità navale e militare rispetto agli altri attori che ne condividono lo spazio.
Tuttavia, occorre specificare che sebbene la sponda nord del fu Mare Nostrum, dalla Spagna alla Turchia, sia quasi totalmente occupata da membri del Patto Atlantico, la sponda sud, dal Marocco all’Egitto, resta ancora terreno insidiabile da parte di Mosca. Con la sponda est sempre più fuori gioco, è proprio nella costa meridionale del Mediterraneo che la Russia intravede l’unica area alternativa per impiantare la propria Marina. La soluzione più immediata sarebbe quella del porto di Tobruk in Libia orientale, sede del Parlamento della Cirenaica, una delle due autorità libiche in conflitto per il controllo dell’intero paese e alleato di Russia, Egitto ed Emirati Arabi, contrapposto al parlamento di Tripoli, supportato a sua volta dalla rivale Turchia.
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Proprio a Tobruch sono attraccate lo scorso giugno due navi della flotta russa in visita: l’incrociatore russo Fariaj e la fregata Admiral Shabashnikov. Sotto l’invito del Generale Haftar, Raìs della Libia orientale, si sono svolte diverse altre visite della Voenno Morskoj negli ultimi anni, la più celebre con la portaerei Admiral Kuznetsov nel 2017, a bordo della quale è stato siglato un accordo bilaterale di cooperazione e formazione militare in ambito navale.
La Libia orientale è già da anni lo snodo logistico principale delle operazioni militari russe in Africa. Da Tobruk e Bengasi, come dalla base aerea di Jufra, i mercenari del fu Gruppo Wagner, oggi noto come Africa Corps, proiettano la propria logistica nel Sahel e in Centrafrica, presenti ormai in almeno 13 paesi africani. L’opzione libica, a questo punto, comporterebbe una grave incognita strategica per l’Alleanza Atlantica, Italia in primis, in quanto la presenza russa dirimpetto alle nostre sponde, sebbene già attiva, verrebbe così assai rafforzata, passando da essere niente più che un modesto scalo militare a principale punto di aggregazione delle forze russe al di fuori del proprio estero vicino.
Chissà se una mossa del genere non sveglierebbe persino un paese strategicamente inerte come l’Italia, chiamato a quel punto a doversi assumere le proprie responsabilità militari di pattugliamento ed eventualmente di reazione, come ai tempi della Cortina di Ferro?
Probabilmente ciò avrebbe anche effetti positivi, rendendo giustificabile, quando non oggettivamente necessario, fare della Marina Militare il principale capitolo di spesa in armamenti del nostro paese, geograficamente vocato ad una proiezione marittima anziché tellurica, e che proprio nel Mediterraneo ha l’area operativa strategica per eccellenza.
Ad ogni modo, esaminando gli altri paesi mediterranei in cui le forze navali russe potrebbero trasferirsi, non appaiono al momento candidati praticabili: il Marocco ha una costa mediterranea ridotta e in parte occupata dalle enclavi spagnole di Ceuta e Melilla, inoltre, non sembra politicamente così vicino a Mosca, avendo persino destinato modeste forniture militari all’Ucraina, tra cui dei carri armati T-72 e relativi pezzi di ricambio nel dicembre 2022, probabilmente in contrasto alla postura della rivale e confinante Algeria, storicamente uno dei maggiori clienti di armamenti russi. Proprio quest’ultima, ad esempio, sarebbe l’alternativa più valida ad ospitare basi russe oltre alla Libia orientale, se non fosse incastonata territorialmente tra due colli di bottiglia, Gibilterra e Stretto di Sicilia, controllati dagli USA e alleati.
Fra le alternative più lontane troviamo infine la Tunisia, più schierata nell’orbita occidentale, con il Presidente Saied in trattativa con UE ed FMI per l’erogazione di fondi più che mai necessari a tenere in piedi il paese, e l’Egitto, governato dal Presidente Al-Sisi, tendenzialmente equidistante tra Russia e Occidente, cliente di entrambi e sorvegliato speciale data la cruciale importanza del Canale di Suez, arteria commerciale da lasciare aperta e libera nella globalizzazione a guida USA.
Al momento gli unici attori a trarre vantaggio dagli avvenimenti siriani sono tre: Israele, Turchia e Stati Uniti d’America.
Tel Aviv vede nella caduta di Assad una vittoria sull’asse della Resistenza iraniano e relative milizie, sempre più in ritirata dai confini dello Stato ebraico nonostante le incognite derivanti da chi li sostituirà (islamisti radicali inclusi). Dopo la caduta di Damasco, infatti, le forze armate israeliane hanno proceduto ad occupare la linea di smilitarizzazione tra il confine siriano e le alture del Golan, occupate da Israele dal 1967 e annesse nel 1981, oltre a bombardare centinaia di depositi di armi per impedire che finissero nelle mani di Hezbollah o degli stessi eredi di Assad.
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La Turchia, invece, vera vincitrice dei recenti avvenimenti, è molto vicina a rimuovere russi e iraniani definitivamente dalla confinante Siria, presentandosi come il principale sponsor e tutore del nuovo governo presieduto da Ahmed al Sharaa, impostando, almeno nelle proprie intenzioni, il rapporto con il nuovo vicino con un’impronta neo coloniale.
Gli Stati Uniti, infine, festeggiano la caduta di un regime alleato dei propri avversari principali, limitandosi ad evitare un eventuale rimanifestarsi dell’ISIS durante il temporaneo vuoto di potere e preservando quanto possibile l’autonomia dei curdi, utile alleato proprio nella campagna di terra contro l’ex Stato Islamico, da usare all’occasione come spina nel fianco contro una Turchia riottosa e troppo militarmente disinvolta. Washington ha di recente rimosso la Siria dalla lista degli stati sponsor del terrorismo e ha rimosso ogni forma di sanzione verso il paese (ne restano ancora alcune in vigore da parte di Unione Europea e Regno Unito), al fine di rendere internazionalmente accettabile il nuovo attore politico siriano. Molto dipenderà dalla volontà del suo leader al Sharaa di partecipare a un vero e convinto processo democratico. La strada è in salita.