Al termine del conflitto denominato “Guerra dei 12 giorni” (13-24 giugno 2025), tutte le parti in causa, come consuetudine, hanno rilasciato dichiarazioni a scopo propagandistico, proclamando di aver raggiunto i reciproci obiettivi.
Israele ha dichiarato conclusa l’operazione “Rising Lion” e ha affermato di aver eliminato la minaccia esistenziale connessa all’arsenale missilistico e al nucleare iraniano. Anche Donald Trump ha parlato di distruzione totale dei siti nucleari, intestandosi politicamente sia la vittoria che la successiva tregua. Dal canto suo, il 26 giugno, l’ayatollah Ali Khamenei è apparso in televisione affermando:
La Repubblica Islamica è uscita vittoriosa e, in cambio, ha dato un duro schiaffo in faccia all’America.
Washington punta al negoziato
Gli Stati Uniti hanno tentennato, ma una volta compreso che la guerra poteva diventare un problema molto serio per Israele, sono scesi in campo. Lo hanno fatto al traino dello Stato ebraico e non sulla base di un piano concertato. La potenza regionale, Israele, ha trascinato in guerra la potenza globale, accentuando la crisi già in atto della sua deterrenza. Il tutto con possibili conseguenze negative sulla base elettorale del presidente americano, contraria a un coinvolgimento diretto.
Nonostante le sue posizioni ondivaghe, per ora Donald Trump è riuscito a fermare il conflitto, prima che travalicasse in una guerra regionale. Per consolidare la tregua, spinge per la via negoziale, che resta complessa. Secondo la CNN, l’amministrazione americana starebbe valutando di riportare Teheran al tavolo delle trattative, tramite una serie di incentivi economici che consentirebbero alla Repubblica islamica di costruire un programma nucleare civile che non preveda l’arricchimento dell’uranio. Cosa ne penserà Tel Aviv?
Tel Aviv, il prezzo dell’azzardo
Israele ha dato il via a una guerra con l’Iran basandosi su pretesti piuttosto deboli: il rapporto AIEA parlava di uranio arricchito al 60% (quindi, non per scopi civili), ma non ci sono ancora prove concrete sul fatto che Teheran fosse vicina a costruire l’atomica. Per Israele, secondo le stime più recenti, i costi umani ed economici sono stati, oltre che insoliti, molto elevati: 29 vittime, più di 3.000 feriti, oltre 9.000 sfollati da aree colpite e numerosi danni infrastrutturali. Amir Yaron, governatore della Banca d’Israele, ha dichiarato a Bloomberg che la perdita è equivalente a circa l’1% del PIL, circa 5,9 miliardi di dollari. Secondo alcuni analisti, la cifra finale potrebbe raggiungere i 20 miliardi di dollari, una volta calcolati completamente gli impatti economici indiretti e le richieste di risarcimento dei civili.

Il cambio di regime a Teheran, uno degli obiettivi programmatici dell’attacco, sembrerebbe fallito. Anzi, paradossalmente, il regime iraniano potrebbe uscire rafforzato dal conflitto. Intanto, lo Stato ebraico si ritrova ancora coinvolto su diversi fronti (Gaza, Cisgiordania, Libano, Yemen, Siria e Iraq), e sempre più logorato dal punto di vista umano e sociale, oltre che finanziario. La percezione interna relativa alla sicurezza non sembra aumentata: il sistema Iron Dome ha dimostrato di essere perforabile, se messo adeguatamente sotto pressione; per contro, la fatica percepita da popolazione e forze militari è notevolmente cresciuta. Il 27 giugno, il quotidiano Haaretz ha riportato le testimonianze di alcuni soldati israeliani, secondo cui è stato loro ordinato di aprire il fuoco contro civili palestinesi, anche quando non c’era alcun pericolo, in prossimità dei centri della Gaza Humanitarian Foundation. In un clima di guerra perenne, Benjamin Netanyahu potrebbe restare in carica ancora per diversi anni, ma a quale prezzo?
Teheran è ancora in piedi
I bombardamenti delle forze israeliane hanno causato ingenti danni in termini di vite umane, oltre 600 morti e più di 4.000 feriti, secondo le autorità sanitarie iraniane. Sono state colpite sia la catena di comando dei Pasdaran (tra cui il comandante in capo del Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica Hossein Salami e il capo di stato maggiore Mohammad Bagheri) che il gruppo di scienziati che sovraintendeva al programma nucleare. Senza contare i danni causati alle infrastrutture tecnologiche e ai siti nucleari di Natanz, Isfahan, Fordow e Arak. Le perdite economiche sono stimate tra gli 11,5 e 17,8 miliardi di dollari, pari al 2,1 - 3,3% del PIL iraniano.

L’Iran, seppur indebolito militarmente e isolato diplomaticamente, non ha mai reciso il filo negoziale con gli Stati Uniti. Nella gestione del conflitto, al di là della retorica, Teheran è rimasta ancorata al principio di realtà. Le rappresaglie contro Israele sono state incisive, ma al tempo stesso calibrate. Secondo l’agenzia Reuters, l’attacco americano al sito nucleare di Fordow sarebbe stato preceduto da un avvertimento che ha consentito di spostare sia il personale che le scorte di uranio arricchito in siti segreti. Anche la successiva risposta iraniana contro la base americana in Qatar, poco rilevante e peraltro già evacuata da tempo, è stata annunciata con anticipo.
Il regime iraniano, per adesso, non è crollato. In apparenza, l’attacco subito sembra aver compattato il sostegno della popolazione. Il percorso nucleare di Teheran è stato gravemente danneggiato, ma non totalmente compromesso. Secondo molti analisti, anche l’arsenale missilistico, uno dei più grandi del Medio Oriente, sembra essere complessivamente intatto.
La tregua è ancora fragile
La tregua imposta da Donald Trump ha permesso agli Stati Uniti di non scivolare in un conflitto indesiderato. Per adesso, non si può parlare di un accordo risolutivo: se gli iraniani dovessero riprendere il programma nucleare, Israele potrebbe a sua volta rilanciare con nuove operazioni militari. Il successo della via negoziale, presupposto per il congelamento del conflitto desiderato dagli Usa, dipenderà in gran parte dalla corrente che si affermerà nel cuore del regime iraniano.
Come ha osservato Nicola Pedde, direttore dell’Institute of Global Studies, alla trasmissione della Radiotelevisione Svizzera Seidisera, la politica iraniana è polarizzata tra due posizioni. Da un lato, la prima generazione, espressione clericale della rivoluzione del 1979, attualmente al governo e più propensa alla via diplomatica; dall’altro, la seconda generazione, l’apparato dei Pasdaran che controlla le leve a livello economico e istituzionale, incline a risposte più aggressive e radicali, rafforzate dalla volontà di disimpegno americano e della sovraesposizione israeliana.
Quest’ultimo è un altro tema cruciale nella futura definizione degli assetti mediorientali: Tel Aviv ha aperto molti fronti, senza riuscire ancora a mettere in archivio alcuna pratica. Se uno stato di guerra prolungato favorisce Benjamin Netanyahu, incollandolo alla sua poltrona, il logoramento economico e sociale può giocare brutti scherzi alla tenuta complessiva dello Stato ebraico. Con conseguenze al momento imprevedibili.