Nelle ultime settimane, a quasi due anni dall’invasione di Gaza seguita all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, la pressione internazionale su Benjamin Netanyahu è cresciuta, mentre proseguono i fragili negoziati per una tregua militare avviati dall’inviato Usa Steve Witkoff. Il Regno Unito ha sospeso i negoziati per un accordo di libero scambio con Israele e ha annunciato sanzioni contro i coloni israeliani responsabili di violenze in Cisgiordania. Sotto il crescente peso delle rispettive opinioni pubbliche, anche altri paesi occidentali (tra cui Spagna, Francia, Canada, ma non l’Italia) hanno affermato di voler rivedere i rapporti commerciali con Israele e intimato futuri provvedimenti. Si tratta di una reazione tardiva e non unitaria che, con ogni probabilità, non produrrà effetti significativi sulle politiche del governo israeliano.
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Solo decisioni drastiche assunte dagli Stati Uniti potrebbero realmente condizionare le scelte di Netanyahu, come una severa limitazione alla fornitura di armamenti. L’amministrazione americana non intende correre il rischio di essere trascinata in un conflitto mediorientale che potrebbe coinvolgere anche l’Iran; inoltre, le ostilità sempre più intense in corso a Gaza non favoriscono le dinamiche commerciali tanto care al presidente americano, in particolare quegli accordi di Abramo che sembrano al momento congelati, subordinati come sono a un’intesa fra i paesi arabi del Golfo e Israele. Nonostante i rapporti tra Trump e Netanyahu non siano ai massimi storici, è comunque altamente improbabile che gli Stati Uniti, principale partner strategico dello stato ebraico, adottino un approccio così radicale.
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In questo contesto, secondo molti analisti, il conflitto in corso ha segnato un drammatico cambio di passo, le cui conseguenze potrebbero rivelarsi fatali non solo per la martoriata popolazione palestinese, ma anche per gli stessi israeliani.
Dopo due anni di operazioni militari e oltre 50.000 morti, l’eliminazione di Hamas non è stata raggiunta. Secondo le Forze di difesa israeliane (IDF), l’organizzazione dispone ancora oggi di circa 40.000 effettivi nella Striscia di Gaza. La guerra, nel frattempo, ha assunto un carattere puramente esistenziale. La linea di Netanyahu, pena la sua sopravvivenza politica, appare totalmente subalterna alla corrente suprematista rappresentata dai ministri Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir, il cui obiettivo geopolitico dichiarato è la creazione di una Grande Israele, da perseguire attraverso la deportazione dei palestinesi dalla Striscia di Gaza, l’annessione della Cisgiordania e la chiusura totale dei campi profughi. Una visione estremista e messianica, impossibile da attuare se non attraverso una vera e propria pulizia etnica.
Queste premesse sono alla base di ciò che Anna Foa ha definito “Il suicidio di Israele” (Laterza, 2024). Il paese sta attraversando una crisi economica, politica e sociale. Il prestigio internazionale dello stato ebraico si è fortemente ridotto e gli episodi di antisemitismo sono in crescita. Secondo un sondaggio della società Ci Marketing, riportato lo scorso maggio dal quotidiano Haaretz, circa il 40% degli israeliani ha considerato l’idea di lasciare il paese. Le principali motivazioni includono la guerra in corso, l’instabilità politica, le riforme giudiziarie e l’aumento del costo della vita.
Come ebbe modo di evidenziare l’ex presidente israeliano Reuven Rivlin in un celebre discorso del 2015, il tessuto sociale è fortemente tribalizzato, diviso tra sionisti laici (la tradizionale classe dirigente di provenienza europea, storicamente legata alle forze armate), nazionalisti religiosi (ebrei di ascendenza mediorientale, attualmente maggioritari), componente ultraortodossa (15%) e popolazione araba (20%), i cui diritti sono sempre più deteriorati. In questo scenario, i laici si oppongono alla trasformazione dello stato in senso teocratico, promossa dalle componenti religiose in forte crescita demografica. Dopo la mattanza del 7 ottobre 2023, la popolazione si è ricompattata e il sostegno a Netanyahu è ancora oggi notevole. Tuttavia, è bene ricordare che, fino a quel giorno, per tutto il 2023 centinaia di migliaia di israeliani erano puntualmente scesi in piazza per manifestare contro la deriva autoritaria del governo.
In un clima di odio crescente e viscerale, la stretta via che conduce alla creazione di due stati o, in alternativa, alla formazione di uno stato binazionale, appare compromessa. Forse solo un cambio delle due leadership, Netanyahu da una parte e Hamas dall’altra, potrebbe aprire la strada non tanto a una risoluzione, quanto a una gestione non guerreggiata del conflitto. Una nuova escalation militare rischia invece di produrre conseguenze drammatiche sia dal punto di vista umanitario, sia per l’equilibrio degli altri attori regionali (in particolare Egitto e Giordania), sia per la già intaccata tenuta democratica dello stato ebraico.