Dopo mesi di crisi politica, iniziata lo scorso dicembre con il tentativo da parte dell’allora presidente Yoon Suk-yeol di imporre la legge marziale, il candidato del Democratic Party of Korea – l’opposizione di centrosinistra – Lee Jae-myung ha vinto le elezioni presidenziali in Sud Corea, battendo il candidato conservatore Kim Moon-soo del People Power Party, lo stesso partito di Yoon. Le elezioni anticipate sono state convocate proprio in seguito alla rimozione dall’incarico dell’ex presidente, messo sotto impeachment dopo aver tentato di imporre la legge marziale lo scorso 3 dicembre.
A differenza di Yoon, Lee avrà la maggioranza nel parlamento unicamerale, dove il suo partito controlla 171 seggi su 300, avendo vinto le elezioni politiche ad aprile. Questa maggioranza potrebbe garantirgli una stabilità politica inedita rispetto al mandato del suo predecessore. Lee ha ottenuto il 49,42% dei quasi 35 milioni di voti espressi, mentre il suo rivale conservatore Kim Moon-soo si è fermato al 41,15%. Secondo i dati della Commissione elettorale nazionale, l’affluenza è stata la più alta per un’elezione presidenziale dal 1997.
Lee ha 61 anni, è in politica da venti, i media sudcoreani lo hanno definito come testardo e determinato ed è nel tempo diventato una figura divisiva nella società sudcoreana, che è estremamente polarizzata – lo si può vedere anche dalle mappe dei risultati delle elezioni o dalle differenze di voto tra uomini e donne. Lee è il quinto di sette figli e, a ha vissuto un’infanzia segnata delle difficoltà economiche familiari: dopo le elementari, ha dovuto lasciare la scuola per lavorare in fabbrica, dove a 13 anni è rimasto coinvolto in un incidente che gli ha ferito in modo permanente il braccio.
Solo dopo ha ripreso gli studi, laureandosi in giurisprudenza grazie ad una borsa di studio e diventando un avvocato per i diritti umani. È stato sindaco di Seongnam, poi governatore della provincia di Gyeonggi, e infine leader del Partito Democratico.
La sua storia è diventata un simbolo di ascesa sociale, alimentando un’immagine pubblica da self-made man che lo distingue da molti colleghi politici. Tuttavia, Lee è una figura divisiva nella politica sudcoreana: il suo stile comunicativo diretto e combattivo è spesso stato definito “populista” dai media, e non sono mancate le controversie legali e personali.
Si era candidato anche alle ultime presidenziali, nel 2022, ma aveva perso contro Yoon con un margine minimo – lo 0,74%. Di Lee si era parlato molto anche nel gennaio del 2024, quando da leader dell’opposizione era stato accoltellato per strada da un uomo che aveva finto di volergli chiedere un autografo. Da allora, Lee ha condotto la campagna elettorale indossando un giubbotto antiproiettile e circondato da guardie armate – una precauzione senza precedenti in Corea del Sud.
Nonostante la vittoria elettorale, il suo mandato inizia già sotto pressione: deve affrontare diversi procedimenti legali, tra cui l’accusa di aver fatto dichiarazioni false durante un dibattito televisivo nella campagna del 2022, accusa che ha respinto con forza.
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È importante ricordare che il Partito Democratico è progressista, ma pur sempre secondo gli standard coreani, la cui società è piuttosto conservatrice e patriarcale: Lee fa parte dell’ala più progressista del partito, ma ha comunque alcune posizioni conservatrici in materia di diritti LGBT+ e delle donne.
Un altro punto chiave importante per capire la differenza tra conservatori e progressisti in Corea del Sud è il loro atteggiamento verso la Corea del Nord: mentre i primi promuovono una linea dura e ostile, il centrosinistra si mostra generalmente più aperto al dialogo con il Nord, vedendolo come un passo necessario per una futura riconciliazione tra i due paesi. Proprio in linea con questo orientamento, nel suo discorso di insediamento di mercoledì, Lee ha fatto appello alla ripresa del dialogo con Pyongyang e alla cooperazione con l’amministrazione Trump – verso la quale sarà comunque probabilmente meno accomodante dell’amministrazione di Yoon, visto che il People Power Party è molto più filostatunitense del centrosinistra e, in parte, filotrumpiano.
Oltre alle sfide interne, Lee dovrà infatti affrontare anche un contesto internazionale complesso. Assumendo la guida del paese, si troverà infatti a dover tenere unito il paese e, al tempo stesso, gestire il rapporto con l’alleato più strategico della Corea del Sud: gli Stati Uniti, oggi guidati da un presidente, Donald Trump, noto per un approccio diplomatico spesso imprevedibile. Proprio nel suo discorso inaugurale, Lee Jae-myung ha segnalato un netto cambio di rotta rispetto al predecessore Yoon, evidenziando come “i rapidi cambiamenti nell’ordine globale, incluso il crescente protezionismo – rappresentino una minaccia alla sopravvivenza della Corea del Sud”. La dichiarazione, apparentemente rivolta alle politiche commerciali aggressive di Trump, sottolinea l’intenzione di Lee di tenere in equilibrio le relazioni con le due superpotenze che influenzano maggiormente il futuro di Seul: Stati Uniti e Cina.
Come molti osservatori hanno notato, Lee eredita una relazione strategica con Washington che sarà difficile da gestire, specialmente sotto l’amministrazione Trump. Nella sua prima telefonata con il presidente americano, i due hanno discusso la possibilità di raggiungere rapidamente un accordo tariffario. Ma intanto, preoccupazioni sono emerse tra gli alleati di Trump, che vedono con sospetto la posizione più conciliatoria di Lee verso la Cina – il più grande partner commerciale della Corea del Sud. Nonostante le pressioni, il nuovo presidente sudcoreano ha già parlato con Xi Jinping, auspicando una cooperazione più attiva in ambito economico, culturale e di sicurezza. Pechino, da parte sua, ha subito rilanciato, proponendo di rafforzare la “partnership strategica” e sostenere il libero scambio, lasciando intravedere un parziale riposizionamento di Seul nel complesso equilibrio geopolitico dell’Indo-Pacifico.
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Nel discorso ha infine fatto riferimento al suo predecessore Yoon, dicendo che non permetterà “mai più che le istituzioni democratiche siano minacciate” e promettendo di “diventare un presidente che mette fine alla politica della divisione”, puntando il dito contro “fazioni politiche senza alcuna volontà di lavorare per la vita delle persone”. Lee ha inoltre promesso di guidare un governo “flessibile e pragmatico”, annunciando l’attivazione immediata di una task force economica d’emergenza. Nel definire la sua amministrazione come “pro-mercato”, ha voluto mandare un messaggio rassicurante agli investitori internazionali, pur senza rinunciare alle sue battaglie simboliche contro disuguaglianza e corruzione.
Nel frattempo, si è anche aperta una questione su dove lavorerà Lee: quest’ultimo vuole infatti tornare nella Casa Blu – la tradizionale residenza dei presidenti sudcoreani, fuori da Seul – dopo che Yoon aveva spostato l’ufficio presidenziale più in centro, nel quartiere di Yongsan. Ufficialmente l’ex presidente disse di aver preso questa decisione per «restituire» alla cittadinanza di Seul il complesso della Casa Blu – chiamata così per le oltre 150 mila piastrelle blu che decorano il suo tetto – e perché quell’edificio era il simbolo di uno stile di presidenza «imperiale»; tuttavia, circolarono versioni secondo cui Yoon non volesse mettere piede nella Casa Blu perché era stato convinto da sciamani e guaritori che portasse sfortuna. Il complesso militare in cui si era trasferito Yoon, a detta di molti, non era però adatto a ospitare il governo del paese e la residenza del presidente. Lee tornerà quindi alla Casa Blu, ma nel frattempo è bloccato a Yongsan mentre terminano dei lavori di ristrutturazione: ci vorrà almeno qualche mese. Inoltre, durante la campagna elettorale, Lee aveva parlato del progetto di spostare la capitale amministrativa della Corea del Sud a più di 100 chilometri da Seul, nella cittadina di Sejong, un piccolo centro da 400 mila abitanti: questo progetto esiste in Corea dall’inizio degli anni Duemila ma non è mai stato attuato.
La vittoria di Lee Jae-myung segna un cambiamento significativo nella politica sudcoreana, ma resta da vedere se alle promesse seguiranno i fatti. Tra pressioni internazionali e interne, il nuovo presidente dovrà dimostrare di essere all’altezza di una fase storica complessa e di un Paese fortemente polarizzato, che chiede stabilità dopo la recente crisi politica.