Con la recente operazione militare israeliana nota come “Rising Lion” sono state distrutte o gravemente danneggiate diverse infrastrutture di stoccaggio e arricchimento di materiale radioattivo destinato al programma nucleare militare dell’Iran.
Oltre ai danni infrastrutturali, inoltre, è stata confermata l’eliminazione di alti ranghi del regime, tra cui il capo di Stato Maggiore delle forze armate Bagheri e il comandante dei Pasdaran Salami, nonché di alcuni importanti scienziati coinvolti nel programma nucleare del paese.
Avendo da sempre escluso un poco realistico confronto terrestre, la rappresaglia di Teheran non è tardata a manifestarsi con il lancio di circa 200 missili balistici negli ultimi due giorni, oltre anche a diversi droni, verso lo Stato Ebraico, di cui alcuni sono riusciti a penetrare le difese israeliane e ad infliggere danni limitati contro obiettivi civili.

Altri due attacchi simili da parte dell’Iran sono avvenuti rispettivamente nell’aprile 2024, in risposta al bombardamento israeliano del consolato iraniano a Damasco, e nell’ottobre dello stesso anno, con l’obiettivo di vendicare l’uccisione da parte di Tzahal dell’allora capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, avvenuta in territorio iraniano.
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Sommando a questi attacchi anche quelli dei recenti 13 e 14 giugno, l’Iran ha impiegato complessivamente circa 600 missili, ovvero un quinto del proprio arsenale, che secondo stime autorevoli di osservatori internazionali ammonterebbe a circa 3.000 unità, suddivise in diverse categorie a seconda della gittata.
Considerando il fatto che solo due terzi di essi sarebbero in grado di raggiungere Israele e che alcuni centri di stoccaggio iraniani sarebbero stati distrutti dai recenti bombardamenti dell’aviazione di Tel Aviv, a Teheran resterebbero circa un migliaio di missili per compiere ulteriori attacchi di rappresaglia.
Un numero considerevole ma comunque limitato abbastanza da costringere il regime degli ayatollah ad una riflessione strategica sul loro utilizzo. Prima dei recenti danni infrastrutturali, infatti, l’Iran era in grado di produrre non più di 50 unità a medio e lungo raggio all’anno, ovvero il 5% dei missili analoghi di cui disporrebbe oggi.
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Un ritmo insufficiente per ricostruire in tempi brevi il proprio arsenale qualora decidesse di compiere attacchi di portata simile o superiore ai precedenti, senza contare che una buona parte di essi andrebbe inoltre conservata per questioni di deterrenza o di eventuale utilizzo contro altri attori.
Per tale motivo è da segnalare il recente acquisto dalla Cina di oltre 1.100 tonnellate di perclorato di sodio, un componente chiave per la produzione di propellenti balistici. Questa fornitura è ritenuta sufficiente per la produzione di circa 800 missili, che potrebbero essere destinati anche alla fornitura verso alleati regionali come gli Houthi in Yemen e ciò che resta di Hezbollah in Libano.
Considerando che le notevoli capacità di intercettazione israeliane, sostenute dagli alleati regionali e occidentali, in primis gli USA, sono state messe in difficoltà e penetrate solo nei casi in cui gli attacchi si sono manifestati in grandi sciami, in grado di saturarne le capacità difensive, ogni ipotesi di attacchi di capacità ridotta, in cui verrebbero impiegate poche decine di vettori, verrebbe dunque esclusa in quanto molto probabilmente inutile.

Ciò che è possibile ipotizzare, a questo punto, è che eventuali altri attacchi missilistici iraniani contro Israele, dovendo contare su grandi quantità di vettori, non potrebbero ripetersi al di sopra di una certa soglia, probabilmente non superiore alla decina di attacchi, sempre che l’obiettivo iraniano sia quello di provocare dei danni materiali e di non limitarsi al mero rafforzamento della propria propaganda interna o a condurre una guerra espressamente psicologica.
Un ulteriore interrogativo, d’altro canto, riguarda la capacità di Israele di mantenere attive ed efficienti le proprie difese. Se è vero che le difese di Tel Aviv si sono dimostrate sempre pronte e reattive nel corso degli ultimi anni, ciò è dovuto al costante rifornimento di munizioni e componentistica da parte degli Stati Uniti, oltre alla continuità della produzione interna.
Ad oggi, però, una buona parte della manodopera israeliana è tuttora impiegata in diversi teatri di conflitto, come nell’invasione di Gaza e nell’occupazione di ulteriori territori nel Golan siriano, sottraendo risorse importanti ad un apparato industriale di modeste dimensioni come quello dello Stato Ebraico.
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Washington, inoltre, seppur dimostratasi sempre ferrea nel rendere Israele un paese solido e temibile dal punto di vista militare, dovrebbe giustificare ancora una volta ai propri contribuenti un ulteriore esborso di cifre miliardarie a fondo perduto, in un clima politico assai teso e caratterizzato da un malcontento dilagante, testimoniato dalle recenti proteste di Los Angeles e delle più note comunità universitarie americane.
Pertanto, date queste considerazioni, non è affatto da escludere che Israele proceda a sua volta con ulteriori attacchi volti espressamente al ridimensionamento dell’arsenale missilistico iraniano, sia tramite bombardamenti che tramite atti di sabotaggio, come appena riscontrato durante l’operazione Rising Lion, in cui agenti infiltrati del Mossad hanno distrutto con droni importati segretamente in Iran le difese missilistiche ostili Bavar, di importazione russa, posizionate a presidio proprio dei siti nucleari appena colpiti.
Se così fosse, le sorti del regime iraniano dipenderebbero sia dall’efficienza degli apparati del proprio controspionaggio, finora dimostratasi assai scarsa, sia dalla capacità di sostituzione delle difese balistiche appena distrutte, potendo però difficilmente contare sul supporto militare della Russia, distratta dall’enorme sforzo della campagna bellica in Ucraina e verso cui lo stesso Iran si pone come principale fornitore di armamenti (in particolare dei temibili droni Shahed con cui Mosca bersaglia ripetutamente obiettivi civili), aprendo il campo ad un più probabile ed ulteriore intervento cinese, la cui possibilità non è però affatto scontata.
Un conflitto, dunque, che non può prescindere dalla dimensione missilistica e dalle rispettive quantità di sistemi e munizioni impiegabili, sia in chiave offensiva che difensiva, oltre che dal supporto esterno dei rispettivi alleati, connotando ancora una volta un conflitto regionale con gli elementi, sempre più ricorrenti negli ultimi anni, di uno scontro fra blocchi su scala globale.
Non è ancora chiaro, infine, fino a che punto Israele decida di non ricorrere alla propria deterrenza nucleare, anche in caso di paventato utilizzo dell’intero arsenale missilistico iraniano. Se così fosse, anche la sola minaccia di risposta atomica israeliana, comporterebbe il termine della dottrina nucleare dello Stato Ebraico, basata sull’ambiguità (ovvero sulla negazione ufficiale dell’esistenza di un proprio arsenale nucleare, sebbene sia da anni ufficiosamente acclarata) sin dalla fine degli anni ‘60.
Se ciò non dovesse bastare, l’utilizzo di un ordigno tattico da parte di Israele, seppur con obiettivo dimostrativo, non è al momento da escludere. Mossa a cui neanche Putin è voluto ricorrere nel corso della guerra in Ucraina, dal momento che la Russia non era certamente di fronte ad una minaccia esistenziale, al contrario di Israele in questo momento.