Nel silenzio delle risaie dello Stato Rakhine, nel nord-ovest del Myanmar, un popolo invisibile ha cercato per decenni di sopravvivere. Si chiamano Rohingya, sono musulmani, e per il governo birmano non esistono. Nonostante vivano in quelle terre da generazioni, sono considerati “stranieri”, privati della cittadinanza, dei diritti fondamentali e, spesso, della stessa dignità umana.
La loro storia è una lunga cronaca di discriminazioni, ma è nel 2017 che il mondo si accorge davvero di loro. Dopo un attacco di un gruppo armato rohingya a una base militare, l’esercito del Myanmar rispose con una brutalità spaventosa. Villaggi rasi al suolo, donne violentate, bambini bruciati vivi, famiglie uccise mentre cercavano di fuggire. In poche settimane, oltre 700.000 Rohingya attraversarono il confine con il Bangladesh, dando vita a uno dei più grandi esodi di massa del XXI secolo.
L’ONU ha definito quella campagna militare una “pulizia etnica”, con “intento genocida”. Ma i responsabili, fino a oggi, non hanno pagato. E mentre i riflettori mediatici si sono spenti, i Rohingya continuano a vivere nei campi profughi di Cox’s Bazar, in Bangladesh, uno dei più grandi al mondo. Lì, in condizioni precarie, tra malattie, scarsità di cibo e accesso limitato all’istruzione, milioni di vite restano sospese.
In Myanmar, chi è rimasto vive in campi di internamento sorvegliati da militari. Non possono uscire liberamente, non possono lavorare, non possono nemmeno sposarsi o accedere a cure mediche senza permesso. Il tutto in un paese che si proclama in transizione democratica, e che ha avuto perfino una Premio Nobel per la Pace – Aung San Suu Kyi – accusata a livello internazionale di aver ignorato, o addirittura giustificato, le violenze contro i Rohingya.
Ma chi sono davvero i Rohingya?
Sono una minoranza etnica musulmana, parlano una lingua vicina al bengalese e abitano da secoli il Rakhine. Il governo birmano, però, li considera immigrati clandestini provenienti dal Bangladesh, nonostante la loro presenza storica sul territorio. Il Myanmar li ha ufficialmente esclusi dalla lista delle 135 etnie riconosciute, negando loro qualsiasi diritto alla cittadinanza dal 1982.
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E così, oggi, i Rohingya restano senza patria, senza passaporto, senza protezione. Il mondo li ha ascoltati per un momento, poi ha voltato pagina. Alcuni Paesi musulmani hanno sollevato il caso, le Nazioni Unite hanno avviato indagini, e la Corte Internazionale di Giustizia ha aperto un procedimento. Ma la strada verso la giustizia è lunga e incerta.
Nel frattempo, una generazione intera cresce dietro recinzioni di plastica e filo spinato, senza sapere cosa significhi la parola “futuro”. I Rohingya continuano a resistere, nonostante tutto. Perché resistere, per loro, significa restare umani in un mondo che li ha dimenticati.