Una storia antica di divisione

Il Myanmar è una nazione dalla storia tormentata. Dopo la fine della dominazione coloniale britannica nel 1948, il paese avrebbe potuto incamminarsi verso la democrazia. Ma le ferite del passato, le profonde divisioni etniche e l’avidità del potere militare hanno scavato crepe che si sono allargate nel tempo. La maggioranza Bamar, al potere, ha spesso represso le richieste di autonomia delle numerose minoranze etniche, tra cui i Karen, i Kachin, i Chin, i Shan e i Rohingya. In molte di queste comunità, la resistenza armata è una realtà da decenni, ben prima che il mondo iniziasse a prestare attenzione.

2021: il colpo di stato che ha incendiato il paese

Il 1° febbraio 2021, mentre il Myanmar si svegliava con la speranza di un nuovo giorno, i carri armati sfilavano per le strade delle città. I militari avevano preso il potere, annullato le elezioni vinte dalla Lega Nazionale per la Democrazia e arrestato i suoi leader, tra cui Aung San Suu Kyi. La popolazione, inizialmente, ha risposto con coraggio: proteste pacifiche, scioperi, disobbedienza civile. Ma la reazione dell’esercito è stata spietata. Fucili contro cartelli, proiettili contro fiori. Migliaia di civili sono stati uccisi o imprigionati.

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A quel punto, qualcosa è cambiato. Migliaia di giovani birmani, spesso senza alcuna esperienza militare, si sono uniti alla resistenza armata. Sono nate le People’s Defence Forces (PDF), che si sono rapidamente alleate con i gruppi etnici armati che da anni combattono il Tatmadaw (l’esercito birmano). Per la prima volta nella storia recente, la resistenza era un fronte unito.

Una guerra che divora il paese

Nel 2025, la guerra in Myanmar ha raggiunto livelli di brutalità impensabili. Interi villaggi sono stati rasi al suolo dai bombardamenti aerei della giunta. Le immagini che filtrano – poche, a causa della repressione della stampa e delle comunicazioni – mostrano scenari apocalittici: bambini sotto le macerie, famiglie in fuga attraverso le montagne, volontari medici che curano i feriti in cliniche improvvisate nella giungla.

La giunta militare conserva il controllo delle principali città – Yangon, Mandalay, Naypyidaw – ma ha perso vaste porzioni di territorio nelle regioni di confine. Le PDF, insieme agli eserciti etnici come quelli del Kachin Independence Army o del Karen National Liberation Army, hanno conquistato roccaforti e imposto pesanti perdite all’esercito governativo.

Le rappresaglie, però, sono feroci. Si parla di vere e proprie “punizioni collettive”: incendi di case, esecuzioni sommarie, arresti arbitrari. La guerra non risparmia nessuno. Donne, anziani, bambini: tutti sono nel mirino.

Il mondo guarda (ma da lontano)

La comunità internazionale ha condannato il golpe, ha imposto sanzioni, ha rilasciato dichiarazioni di principio. Ma poco è cambiato. Le grandi potenze hanno interessi strategici contrastanti: la Cina continua a mantenere rapporti economici con la giunta; la Russia vende armi. L’ASEAN, l’associazione dei paesi del Sud-est asiatico, ha provato a mediare, ma senza risultati concreti.

Nel frattempo, il governo civile in esilio – il National Unity Government – cerca di guadagnare riconoscimento internazionale e sostenere la resistenza, ma le risorse sono scarse. L’aiuto arriva soprattutto da diaspora e attivisti internazionali, mentre milioni di birmani sopravvivono in condizioni disperate.

La speranza tra le macerie

Eppure, nonostante tutto, la speranza resiste. Nascosta tra i monti dello Stato Kachin, nei rifugi della giungla Karen, tra le aule clandestine dove si insegna ai bambini che un altro futuro è possibile. Giovani artisti continuano a creare, i monaci pregano per la pace, gli attivisti rischiano la vita per diffondere notizie al di là dei confini.

Il Myanmar è una terra ferita ma non sconfitta. La sua gente ha dimostrato un coraggio straordinario, una determinazione che va oltre la paura. Ma ha bisogno che il mondo ascolti, guardi, agisca.

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La guerra in Myanmar è un conflitto dimenticato, ma non meno urgente. È il grido di un popolo che rifiuta la tirannia, che lotta per la libertà in un contesto in cui ogni giorno può essere l’ultimo. Finché la giunta resterà al potere, finché la comunità internazionale non passerà dalle parole ai fatti, la tragedia continuerà. Ma dove c’è resistenza, c’è anche speranza. E la speranza, in Myanmar, non è mai stata così viva.

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