Nacque da un incendio, e da un insulto. Era il 1969 quando la Moschea di Al-Aqsa, uno dei luoghi più sacri dell’Islam, fu data alle fiamme a Gerusalemme. Per il mondo musulmano, fu una ferita profonda, simbolica e concreta. Di fronte a questo atto, considerato una profanazione, 25 nazioni musulmane si riunirono a Rabat, in Marocco. Non solo per condannare l’accaduto, ma per fare qualcosa di più grande: dare vita a una piattaforma unitaria, in grado di rappresentare e difendere i valori, gli interessi e l’identità del mondo islamico. Nacque così la Organization of Islamic Cooperation – OIC, in italiano Organizzazione della Cooperazione Islamica.
Con il quartier generale a Jeddah, in Arabia Saudita, l’OIC ha oggi 57 Stati membri, distribuiti tra Medio Oriente, Africa, Asia e perfino Sud America. Con oltre un miliardo e mezzo di musulmani rappresentati, è la seconda più grande organizzazione intergovernativa al mondo, subito dopo le Nazioni Unite.
Ma la domanda che molti si pongono è: cosa fa esattamente l’OIC? È davvero efficace nel proteggere gli interessi dei suoi membri?
Nata per difendere i luoghi santi e per sostenere la causa palestinese – che ancora oggi è uno dei suoi pilastri principali – l’Organizzazione della Cooperazione Islamica ha nel tempo ampliato la sua agenda. Si occupa di diplomazia, sviluppo economico, istruzione, diritti umani, scienza e cultura. Ma soprattutto cerca di presentare una voce unita del mondo musulmano nelle crisi globali. Un’impresa tutt’altro che facile.
Nel corso dei decenni, l’Organizzazione della Cooperazione Islamica ha provato a intervenire diplomaticamente in numerosi conflitti: dalla guerra in Afghanistan alla questione del Kashmir, dalle tensioni in Siria alla persecuzione dei Rohingya in Myanmar. In molti casi, ha rilasciato dichiarazioni di condanna, promosso conferenze, cercato mediazioni. Eppure, proprio qui sta il punto critico: l’organizzazione ha spesso faticato a tradurre le parole in azioni concrete.
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Le ragioni sono evidenti. L’OIC è composta da paesi molto diversi tra loro per cultura, politica ed economia. Alcuni sono monarchie ricchissime del Golfo, altri sono nazioni africane in via di sviluppo. Le divisioni interne – come quelle tra sunniti e sciiti, o tra alleati e rivali regionali – rendono difficile trovare un fronte comune. Spesso l’OIC ha dovuto accontentarsi di posizioni simboliche, che, pur rilevanti sul piano morale, hanno avuto poco impatto reale sulle crisi in corso.
Eppure, non si può ignorare la sua esistenza. In un mondo sempre più multipolare, l’OIC rappresenta uno spazio dove il dialogo tra nazioni musulmane è possibile, dove le differenze si affrontano non solo sui campi di battaglia, ma anche attraverso il confronto diplomatico. Inoltre, in campi come l’educazione, la cooperazione scientifica e la solidarietà umanitaria, l’organizzazione ha promosso programmi concreti e di valore.
Oggi, mentre il mondo islamico affronta nuove sfide – dai conflitti regionali al cambiamento climatico, dalla disoccupazione giovanile al confronto con l’Occidente – l’OIC si trova di fronte a una scelta storica: continuare a essere un osservatore della realtà, o trasformarsi in un attore capace di incidere davvero sul futuro delle sue comunità.
Perché, in fondo, il sogno che ha fatto nascere l’Organizzazione della Cooperazione Islamica non è mai stato solo quello di rispondere a un atto di violenza, ma di costruire un ponte tra i popoli, una piattaforma di dignità, giustizia e unità. Una sfida difficile. Ma ancora, oggi, necessaria.