Il 9 ottobre 2025, a Sharm el-Sheikh, le delegazioni di Hamas e Israele hanno siglato, grazie alla mediazione di Stati Uniti, Qatar, Egitto e Turchia, un accordo per il cessate il fuoco e l’avvio della prima fase del Piano Trump. La trattativa stabilisce l’aumento degli aiuti umanitari nella Striscia e il rilascio degli ostaggi israeliani in cambio di circa 2.000 prigionieri palestinesi. Inoltre, le Forze di Difesa Israeliane (IDF) dovranno arretrare le loro posizioni, assestandosi su una nuova linea, mantenendo il controllo del 53% della Striscia di Gaza.
Non si può propriamente parlare di pace, ma solo di una sospensione instabile e tardiva dei combattimenti, imposta unilateralmente dagli Stati Uniti di Trump, che con il loro costante sostegno militare e politico hanno reso possibile la campagna bellica condotta dallo Stato ebraico negli ultimi due anni. Nell’orientare gli Usa verso questa scelta hanno giocato diversi fattori: la linea rossa varcata da Tel Aviv con l’attacco lanciato in Qatar; l’indiretta pressione esercitata dagli Stati arabi, vedi la decisione dell’Arabia Saudita di aderire all’ombrello nucleare pakistano; la possibilità di una prossima riapertura della partita iraniana, lungi dall’essersi conclusa con la fine della cosiddetta “Guerra dei 12 giorni”.
Un cessate il fuoco estremamente fragile, come hanno dimostrato le recenti violazioni, minato fin dalla nascita dall’ambiguità delle sue condizioni. Hamas non ha nessuna intenzione di operare il disarmo e abdicare al suo ruolo; Israele non intende ritirarsi dai territori occupati senza aver prima eradicato l’organizzazione palestinese dalla Striscia; l’invio a Gaza di una non specificata forza di stabilizzazione internazionale, con la possibile partecipazione di militari qatarini e turchi, considerati elementi ostili a Tel Aviv; la nascita di un “Board of Peace” guidato da Donald Trump e Tony Blair, quest’ultimo passato agli annali nel mondo arabo per aver contribuito al massacro di oltre 200.000 iracheni (Seconda Guerra del Golfo, 2003-2011); infine, le posizioni dell’estrema destra israeliana, fin da subito contraria al compromesso, rappresentano un ulteriore fattore di rischio: potrebbero facilmente far saltare le trattative in corso o, addirittura, il governo Netanyahu.
L’accordo rimuove inoltre l’elemento fondamentale della questione: non potrà mai esserci una vera pace senza una Palestina libera dall’assedio di Israele. La gestione – operata da Hamas o da qualsiasi altra entità palestinese – di una popolazione stremata e intrappolata in un territorio devastato, porterà inevitabilmente alla ripresa degli scontri e al naufragio del cessate il fuoco.
La tregua, in ogni caso, ha concesso respiro non solo alla comunità palestinese – martoriata da due anni di operazioni militari e violenti bombardamenti che hanno causato più di 60.000 morti (tra cui circa 20.000 bambini) – ma anche allo Stato ebraico: alle sue truppe, contrarie a impantanarsi nel “buco nero” dei tunnel di Gaza City, e al suo fronte interno, sempre più prossimo a raggiungere il punto del definitivo collasso.
La società civile israeliana è stanca, provata da una guerra condotta su più fronti, e al suo interno profondamente frammentata tra componente laica – che si oppone alla trasformazione dello Stato in senso teocratico – e fazioni religiose in forte crescita demografica. Le divisioni, legate alle questioni giudiziarie di Benjamin Netanyahu e alla riforma della Corte Suprema, hanno dato vita, per tutto il 2023, a forti proteste e manifestazioni di piazza, rendendo Tel Aviv sempre più vulnerabile agli occhi dei suoi nemici.
È in questo contesto che, nel luglio dello stesso anno, l’ala militare di Hamas ha deciso di attuare un piano concepito da tempo, approfittando della scarsa soglia di attenzione degli apparati israeliani. L’attacco del 7 ottobre, un massacro che causerà la morte di circa 1.200 persone, in massima parte civili, coglierà Israele impreparata, svelando a se stessa e al mondo la sua fragilità.
Di fronte a un attacco senza precedenti, sarebbe stato lecito aspettarsi un fronte israeliano unito, in tutte le sue componenti. Così non è stato.
Benjamin Netanyahu, fin da subito, ha cercato di far ricadere le responsabilità dell’attacco sui servizi di sicurezza interni (Shin Bet). Il direttore Ronen Bar non avrebbe agito con la necessaria lealtà e avrebbe usato l’agenzia per fini politici (lo Shin Bet, in quei mesi, stava indagando su presunte tangenti pagate dal Qatar a consiglieri dello stesso Netanyahu). Nel giugno del 2025, dopo un lungo contenzioso, Bar si è dimesso dall’incarico. Al suo posto è stato nominato il generale David Zini, noto per le sue posizioni messianiche e per la visione fortemente ideologica e religiosa del conflitto israelo-palestinese.
La scelta di Zini non è stata solo un cambio di comando: ha trasformato lo Shin Bet in una leva di potere interna al governo e generato un punto di rottura tra istituzioni chiave. Sarà proprio lo Shin Bet di Zini a guidare il fallito attacco aereo del 9 settembre 2025 contro i vertici di Hamas riuniti a Doha, in Qatar, in aperta polemica con il Mossad, il servizio segreto estero di Israele, contrario all’operazione. La sua esclusione ha acceso forti tensioni tra le due agenzie: il Mossad teme la trasformazione dello Shin Bet in strumento politico che consenta al governo un controllo più diretto sull’intelligence.
Le faglie interne generate dall’attacco del 7 ottobre hanno investito anche il rapporto tra il governo e le forze armate israeliane, tradizionalmente legate ai sionisti laici, la classe dirigente di provenienza europea. Le pressioni politiche per “migliorare la responsabilità” del comando militare nei confronti dell’esecutivo hanno portato alle dimissioni di alcuni vertici (come Aharon Haliva e Yaron Fuchs) e alla nomina, il 5 marzo 2025, del generale Eyal Zamir come Capo di Stato Maggiore delle Forze di Difesa Israeliane. Rimasto sostanzialmente leale alle direttive delle istituzioni per tutto il periodo di guerra, con l’avvio dell’operazione Carri di Gedeone (agosto 2025), che avrebbe dovuto portare allo sgombero di Gaza City, anche l’esercito – profondamente contrario alla missione – è finito per scontrarsi col governo.
Nel frattempo, la violenza e la durata dei combattimenti hanno contribuito a diffondere stress, frustrazione e sfiducia tra i ranghi delle truppe, provocando tra i riservisti la più forte ondata di diserzione dalla Prima Guerra del Libano nel 1982.
Profondamente diviso al suo interno, indebolito economicamente e provato psicologicamente, Israele (9 milioni di abitanti che popolano un territorio grande circa quanto la regione Puglia) ha aperto negli ultimi due anni ben sei fronti di battaglia – Striscia di Gaza (e Cisgiordania), Libano, Yemen, Iran, Iraq e Siria – senza riuscire a chiuderne al momento nessuno. In queste condizioni, il mix perfetto per una guerra civile, il Paese si avvia a nuove elezioni, che si terranno probabilmente nell’ottobre 2026. Come dire: in bocca al lupo.
Benjamin Netanyahu, intanto, è sempre più isolato a livello internazionale. Gli Stati Uniti considerano l’assertività di Israele in Medio Oriente come un problema da gestire, a cui hanno dedicato fin troppe risorse ed energie.
Nel suo discorso tenuto alla Knesset (il parlamento israeliano) il 13 ottobre, il presidente Trump ha inusitatamente invitato il presidente Olmert a concedere la grazia al primo ministro israeliano. Dal momento che la grazia si concede ai condannati, non si può esattamente parlare di una pacca sulle spalle. In un’intervista concessa a “Time” il 15 ottobre, Trump ha assicurato che l’annessione della Cisgiordania “non avverrà, perché ho dato la mia parola ai Paesi arabi”, avvertendo che Israele “perderebbe tutto il sostegno degli Stati Uniti se ciò accadesse”. Recandosi al vertice di Sharm el-Sheikh, il presidente turco Recep Erdogan ha imposto e ottenuto l’assenza di Netanyahu come condizione sine qua non per la sua partecipazione.
Proprio la Turchia emerge come principale beneficiario geopolitico degli ultimi sviluppi in Medio Oriente. Dopo la Libia, dove Ankara controlla ormai di fatto Cirenaica e Tripolitania (ovvero accesso a rotte energetiche, basi navali e influenza sul Mediterraneo centrale e orientale), la sua sfera di influenza si estende ora alla Siria – dove è protagonista del riassetto geopolitico dello spazio, in competizione proprio con Tel Aviv – e alla Palestina stessa, dove i suoi uomini potrebbero entrare mascherati da forza di stabilizzazione internazionale sotto l’egida dell’ONU. Israele si troverebbe a fronteggiare l’influenza turca su due dei suoi confini.
Nel contesto della tregua e delle nuove alleanze, la Turchia sfrutta la sua posizione di mediatore per riallinearsi o negoziare con attori come Stati Uniti e Qatar, incrementando il suo capitale diplomatico e presentandosi come interlocutore indispensabile per l’intero mondo arabo. La logica neo-ottomana di Erdogan impone una ridefinizione degli equilibri mediorientali. Su quale cavallo punteranno in futuro gli americani, Ankara o Tel Aviv? Saprà Israele, questa volta, adattarsi all’agenda turca, o sceglierà di aprire un nuovo fronte?
