Con l’avvio dell’operazione Rising Lion, Israele ha deciso di giocare d’azzardo e rompere tutti gli indugi. Lo Stato ebraico vuole approfittare dell’attuale fragilità della Repubblica islamica, indebolita dal crollo del regime alawita in Siria e dalle perdite subite dai suoi agenti di prossimità nella regione: Hamas a Gaza, Hezbollah in Libano e le forze Huthi in Yemen. L’obiettivo è duplice: far arretrare di parecchi anni il programma nucleare iraniano e promuovere un cambio di regime a Teheran.
Il ruolo degli Stati Uniti
Non è chiaro quale sia il grado di consenso fornito dagli Stati Uniti all’operazione militare, se siano andati al traino delle decisioni israeliane o se le abbiano pienamente avallate. Secondo molti analisti, lo Stato ebraico vorrebbe trascinare la potenza americana nel conflitto, assestando un colpo mortale ai negoziati sul nucleare condotti tra Washington e Teheran. Dal canto loro, gli Usa non intendono partecipare a una nuova guerra mediorientale dagli esiti potenzialmente imprevedibili. Molto dipenderà dalla portata della reazione iraniana: di fronte a una progressiva escalation, gli Stati Uniti non potranno esimersi dal sostenere Israele, e l’ipotesi di un loro coinvolgimento diretto diventerebbe reale.
La reazione iraniana
Per la Repubblica islamica, l’intervento americano al fianco di Israele sarebbe esiziale. Onde evitarlo, il regime dovrà cercare di tenere in vita i canali diplomatici con gli Usa, cedendo a sostanziose concessioni e limitandosi a una reazione massiccia ma di fatto contenuta. Un eventuale accordo con gli Stati Uniti indebolirebbe fortemente la posizione di Netanyahu, minando la sua già traballante credibilità. Tutto questo con un occhio al fronte interno, tutt’altro che compatto, dove un possibile cambio di regime potrebbe portare al potere correnti militari particolarmente aggressive, legittimate dall’attacco israeliano.
Il fronte israeliano
Impegnato da quasi due anni in una guerra lacerante e autodistruttiva condotta su più fronti, in deroga alla tradizionale strategia che ha sempre visto lo Stato ebraico coinvolto in operazioni militari brevi e produttive, Israele ha deciso di chiudere la partita e di abbattere il regime degli ayatollah. Mossa disperata, e quindi pericolosa. Il prestigio internazionale di Israele è incrinato. L’opinione pubblica interna è stanca e fortemente frammentata, ormai in buona parte convinta che le scelte di Netanyahu, considerato il principale responsabile del disastro del 7 ottobre 2023, siano motivate solo dalla sua sopravvivenza politica.
Se il presidente americano riuscirà ad aprire un nuovo tavolo negoziale, le ostilità potrebbero progressivamente affievolirsi, sulla falsariga di quanto accaduto con Hezbollah in Libano. In caso contrario, non si può escludere un allargamento del conflitto con il coinvolgimento di altri attori depositari di interessi forti nella regione. Inoltre, un vuoto di potere a Teheran potrebbe aprire la strada a scenari imprevedibili. Il futuro politico di Benjamin Netanyahu appare sempre più legato a uno stato di guerra permanente, da perseguire in palese violazione del diritto internazionale. In una guerra definita come esistenziale non esiste alternativa alla vittoria. Ma gli interessi del premier israeliano non sembrano più coincidere con quelli dello Stato ebraico, minacciando le sue stesse fondamenta.