Lo scoppio su larga scala del conflitto tra Israele e Iran del 13 giugno, apre necessariamente la strada a molteplici scenari circa il futuro della Repubblica Islamica.
All’interno del binomio tra il mantenimento dello status quo da una parte, e l’instaurazione di un regime ben voluto da Washington e da Tel Aviv dall’altra, si ramificano numerose variabili, le cui declinazioni incideranno sugli sviluppi politici dell’Europa e dell’intero occidente, in chiave sia strategica che morale.
Il presente articolo si propone di analizzare le conseguenze del conflitto e di presentare una risk analysis di medio-lungo termine sulle conseguenze di un cambio di regime in Iran.
La mattina del 13 Giugno 2025, le Forze di Difesa Israeliane (IDF) iniziano un’operazione su larga scala all’interno dei confini iraniani, colpendo impianti strategici per lo sviluppo nucleare in Iran e numerosi sistemi di difesa aerea. L’azione compiuta da Israele rispecchia completamente la strategia regionale del Paese: impedire lo sviluppo di testate nucleari da parte di antagonisti regionali. Al momento infatti, Israele è l’unico stato dell’intera regione del Medio-Oriente Nord Africa ad avere una capacità nucleare, potendo contare su un numero compreso tra le 90 e le 400 testate nucleari. E’ inoltre, assieme all’India, al Pakistan e alla Repubblica Democratica Popolare di Corea, uno dei quattro stati, ad esclusione dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, in possesso di ordigni nucleari. Israele infatti, assieme ai tre stati menzionati sopra ed al Sudan del Sud, non fa parte del Trattato di Non Proliferazione Nucleare del 1968. E’ comunque rilevante ricordare che all’interno del diritto internazionale le norme contenute all’interno dei Trattati possono diventare valide per l’intera comunità internazionale anche in assenza di un esplicito consenso di uno Stato a farsi parte di tali norme. Nel caso della non proliferazione nucleare rimane incerta la sua ascrizione tra le norme consuetudinarie del diritto internazionale.
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La capacità nucleare israeliana e l’assenza di un secondo attore proprietario di testate nucleari impedisce lo sviluppo della dottrina MAD (Mutual Assured Destruction). La MAD, o Distruzione Mutua Assicurata, è una dottrina strategica internazionale basata su un concetto semplice: due Stati in possesso di testate nucleari in grado di distruggere totalmente l’uno la popolazione e le infrastrutture vitali dell’altro, evitano il conflitto diretto per timore di una ritorsione devastante che renderebbe la vittoria impossibile e la guerra suicida per entrambi.
Appare quindi evidente che nel caso in cui l’Iran riuscisse a sviluppare questa tecnologia, la relativa libertà di azione che Israele è in grado di avere sulla regione del Levante andrebbe a ridursi. L’attacco di Israele alle infrastrutture strategiche iraniane non deve quindi sorprendere. In particolare, lo Stato Ebraico ha agito in un momento particolarmente favorevole per i propri interessi regionali. Il ritiro degli Stati Uniti dal Joint Comprehensive Plan of Action (JCPoA), il piano disegnato dall’amministrazione Obama, dall’UE e dalla Federazione Russa al fine di bloccare l’arricchimento dell’uranio in Iran, ha aperto la strada al completo collasso del patto. Gli sforzi profusi dalla Russia in Ucraina, con conseguente abbandono strategico dell’Iran, apparso definitivo allo scoppio di questo conflitto, hanno lasciato praticamente priva di alleati militari la Repubblica Islamica. Anche la stabilizzazione della situazione politica interna della Siria, competitor regionale storico di Israele, ha significato la parziale chiusura di un fronte caldo al confine settentrionale di Israele.
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Quale futuro per Tehran? Il gigante regionale si trova in una posizione particolarmente ardua, privo di alleati materiali e la fine del regime Rivoluzionario instaurato da Khomeini nel 1979 non è mai sembrata così vicina. Israele e gli Stati Uniti ne hanno coscienza e durante il primo giorno di combattimenti a distanza, il Primo Ministro Netanyahu ha chiamato a raccolta la popolazione Iraniana per sovvertire l’ordine statale. Gli omicidi pianificati dai Servizi Segreti Israeliani del Mossad e il loro infiltraggio nei ranghi di potere dell’Iran hanno inoltre contribuito a creare un clima di insicurezza particolarmente pesante che potrebbe portare ad una sovversione interna del regime. Nonostante questo, non risultano presenti al momento in Iran sollevazioni popolari contro il regime e durante gli attacchi balistici Iraniani numerose persone si sono riversate nelle strade di Teheran per festeggiare, al contrario, la risposta militare del paese. Tra i vessilli esposti in piazza sono anche apparse le bandiere degli Houthi Yemeniti (il cui slogan recita “Dio è il più grande, morte all’America, morte a Israele, maledizione sugli ebrei, vittoria per l’Islam). Appare quindi improbabile una sollevazione popolare da parte della popolazione persiana propriamente detta. E’ necessario comunque ricordare che la popolazione del paese risulta essere particolarmente composita. I persiani compongono circa il 61% della popolazione. La più grande minoranza etnica del paese è quella Azera, che conta nei confini della Repubblica Islamica circa 15-20 milioni di persone (il 16% del totale della popolazione iraniana). Seguono poi i curdi (8-12 milioni), i Lur (4-6 milioni), gli Arabi, i Balochi e i Turkmeni. In caso di ‘resa incondizionata’ dell’Iran, come auspicato dal Presidente Trump, il futuro del paese appare più incerto che mai. L’instaurazione di un regime ‘fantoccio’ o in ogni caso fortemente guidato dagli Stati Uniti ed Israele potrebbe portare ad una grande e nuova ondata di disordini nella regione. L’esperienza statunitense nel medio-oriente allargato nel primo decennio del nuovo millennio ha portato a conseguenze gravi nella regione, con importanti ripercussioni anche in Europa e nel resto del mondo. L’era dell’export democratico-liberale statunitense inaugurata a metà degli anni novanta in Bosnia Herzegovina e Kosovo ha portato nei migliori casi a impasse politiche e ad una stasi tale da bloccare quasi completamente l’output politico e lo sviluppo internazionale di un paese, e a guerre e violenze su larga scala nel peggiore dei casi. Le esperienze irachene e afghane hanno dimostrato che cambiare il regime di un paese tramite l’utilizzo del potere militare è particolarmente impegnativo. Nonostante l’esistenza di regimi quasi-democratici dal punto di vista procedurale, l’esperienza post-conflittuale di Iraq e Afghanistan è stata tutt’altro che pacifica. La presenza di governi deboli, corrotti e molto spesso incapaci di garantire la sicurezza dei cittadini sono stati vettori micidiali, capaci di far cadere l’Afghanistan in una spirale di violenza interna talmente elevata da spingere la NATO ad abbandonare fisicamente (con la conclusione delle missioni NATO ISAF e NATO RS) e politicamente il paese senza aver portato a termine la propria missione. L’occupazione militare dell’Iraq, l’instaurazione di un quasi-protettorato sotto la guida Paul Bremer III e la successiva esperienza repubblicana irachena, che continua tutt’ora a sopravvivere, ha posto le basi per lo sviluppo di un movimento islamista-jihadista declinato in chiave antioccidentale in grado non solo di colpire i centri politici europei e statunitensi, ma anche di consolidare una presenza territoriale su larga scala come mai vista prima. Il quasi-stato del Da’esh (ISIS) rappresenta ancora oggi un unicum, almeno contemporaneo, di un’entità terroristica in grado di evolversi in entità parastatale, arrivando nel periodo di suo massimo splendore a controllare una popolazione di 8-12 milioni di persone residenti in un’area paragonabile a quella di stati come la Grecia. Lo sviluppo dello Stato Islamico, reso possibile anche grazie ad altri interventi internazionali nella regione, in particolare in Siria ed in Libia, potrebbe rappresentare un monito riguardo ai possibili scenari futuri dell’Iran. Certamente, l’Iran è uno stato a maggioranza Sciita, nemico ideologico dell’Islam radicale Sunnita, come i contrasti tra Arabia Saudita e l’Iran stesso certificano, ma lo sviluppo di meccaniche simili è tutt’altro che da escludere. Già al momento in Iran sono presenti cellule sovversive come ad esempio il movimento di indipendenza Balochi di Jaish-ul-Adl, i marxisti-leninisti curdi del PJAK, e perfino alcune cellule dello Stato Islamico. Inoltre, proprio come per i casi Iracheni, Siriani e Afghani, la variata composizione etnica dell’Iran potrebbe risultare particolarmente delicata per i futuri sviluppi politici della regione in caso di un vuoto di potere.
Nonostante queste considerazioni, i leader europei si sono mostrati non contrari ad un cambio di regime in Iran. Nonostante le legittime preoccupazioni relative alla minaccia atomica dell’Iran, le considerazioni europee risultano prive o quasi di qualsiasi proposta relativa ad un Iran orfano delle proprie guide. L’Iran rappresenta per le economie Europee un terreno inesplorato ed un’eventuale apertura del paese ad investimenti stranieri sia in fase di ricostruzione, fisica e industriale, che di sviluppo porterebbe beneficio ai paesi europei, ad Israele e agli Stati Uniti. Solo la Germania al momento esporta un ‘junior partner’ dell’Iran, con esportazioni nel paese che superano il miliardo di dollari. La Cina è inoltre il più grande partner commerciale dell’Iran, con investimenti nel paese per oltre 400 miliardi di dollari e con un accordo venticinquennale sulle esportazioni di petrolio iraniano. ‘Catturare’ l’Iran sarebbe quindi, nel contesto della guerra commerciale tra Occidente e Cina una mossa strategicamente vantaggiosa. Contemporaneamente, come espresso sopra, forzare un cambio di regime, ha portato storicamente nella regione a conseguenze impreviste e tutt’altro che vantaggiose per i paesi Occidentali. L’afflusso migratorio dalla Siria, dall’Iraq, dal Nord Africa e dall’Afghanistan, gli attentati a matrice islamista in Europa, lo sviluppo di partiti agli estremi degli emicicli parlamentari costituiti sfruttando le conseguenze della Guerra al Terrosimo sono tra le problematiche che maggiormente hanno interessato l’Europa negli ultimi 15 anni, diventando anche asset attivamente sfruttati dagli avversari dell’allenza Euroamericana per indebolire la coesione e l’ordine sociale e sobillare instabilità ed estremismi.
La stabilità dell’Iran risulta di importanza strategica anche per quanto riguarda lo stretto di Hormuz. Più del 20% delle risorse petrolifere del mondo attraversa lo stretto per raggiungere le proprie destinazioni, e sotto le sue acque giace la più grande riserva di gas naturale al mondo. La assoluta necessità di uno Stato stabile a guardia degli stretti risulta essere di vitale importanza. Come già visto per il conflitto in Yemen e lo stretto di Bab el-Mandeb, la presenza di uno o più stati falliti o in guerra rappresenta una grave minaccia al commercio marittimo di risorse strategiche, e, come per le azioni portate avanti dagli Houthi in Yemen, è probabile che in caso di collasso interno dell’Iran o di resistenza del governo, lo stretto di Hormuz necessità di estrema attenzione.
In conclusione, la crisi scaturita dal conflitto tra Israele e Iran rappresenta un punto di frattura potenzialmente epocale per gli equilibri mediorientali e, per estensione, per l’intera architettura geopolitica globale. Un eventuale cambio di regime a Teheran, sebbene auspicato da alcune capitali occidentali, non può essere considerato una panacea né un processo lineare verso la stabilità e la democratizzazione del paese. Al contrario, come dimostrato dalle esperienze passate in Iraq e Afghanistan, la caduta di un regime consolidato in un contesto etnicamente frammentato e privo di strutture statali resilienti rischia di aprire la strada a nuove fasi di disordine, radicalizzazione e conflittualità. In questo scenario, l’Europa si trova di fronte a un bivio strategico: limitarsi a seguire l’indirizzo imposto dalle superpotenze o elaborare una propria visione di lungo termine, basata su stabilità regionale, difesa degli interessi energetici e tutela dei principi democratici, evitando gli errori del passato.