Nelle ultime settimane, il conflitto del Kashmir è tornato su tutte le prime pagine dei giornali e nelle trasmissioni televisive. Ormai da decenni, in Kashmir si consuma una delle dispute territoriali più pericolose al mondo che vede come protagonisti l’India e il Pakistan. Entrambi gli stati rivendicano il territorio del Kashmir fin dal 1947, trasformandolo in un teatro di tensioni etniche, religiose e geopolitiche che hanno provocato migliaia di vittime e un’instabilità viscerale. In questo contesto, al di là della rivalità ormai riconosciuta tra i due stati, c’è un altro attore che gioca un ruolo chiave nel fomentare l’instabilità della regione: l’ISI, la principale agenzia di intelligence pakistana.
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Fondato nel 1948, l’ISI (acronimo di Inter-Services Intelligence) nacque con l’obiettivo di difendere la sicurezza nazionale e tutelare gli interessi nazionali pakistani. Con l’avanzare della Cold War, però, l’ISI iniziò a ricoprire sempre più un ruolo centrale, soprattutto in Afghanistan dopo l’invasione dell’URSS.
Alleandosi con gli USA, l’ISI ebbe la grande possibilità di ricevere supporto dalla CIA, nell’ambito della neonata operazione Cyclone (1979-1989, operazione che aveva lo scopo di armare e finanziare i mujaheddin in Afghanistan per sconfiggere l’URSS). Grazie a denaro, armamenti e addestramento, l’ISI si rivelò il vero e proprio catalizzatore della vittoria dei mujaheddin.
Conclusa la guerra contro l’URSS, nei primi anni Novanta l’Afghanistan precipitò nella guerra civile e, fu proprio in quel contesto che si assistette ad una metamorfosi dell’ISI. Profetizzando la vittoria dei talebani guidati dal mullah Omar, il servizio pakistano decise di sostenerli attivamente con armi e addestramento, contribuendo alla formazione, secondo le stime, di circa 100 mila combattenti.
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Da agenzia di intelligence al servizio di Islamabad, l’ISI divenne una realtà ambigua intrecciata con il terrorismo islamista e, molto probabilmente, coinvolta in modo diretto nella progettazione di attentati.
Diventato un vero e proprio attore ibrido e forte del know-how acquisito durante il conflitto in Afghanistan, l’ISI aveva già trovato nella regione del Kashmir la propria nuova arena operativa. Così, nel 1988 venne lanciata l’Operazione Tupac, un programma segreto che prevedeva il finanziamento e l’addestramento di gruppi militanti islamisti impegnati nell’indebolimento dell’India e nell’internazionalizzazione del conflitto.
Tra i gruppi destinatari del sostegno pakistano i principali erano Lashkar-e-Taiba (LeT) e Jaish-e-Mohammed (JeM). Il primo gruppo, l’”Esercito dei Giusti”, era un gruppo di radicali religiosi pakistani di ideologia sunnita ultraortodossa, fondato agli inizi degli anni Novanta da Hafiz Mohammed Sa’id. Mentre i secondi, l’“Esercito di Maometto”, era un gruppo terrorista islamista deobandi, guidato da Massud Azar, e futuro responsabile degli attacchi a Mumbai del 2008.
L’Operazione Tupac aveva uno scopo ben definito: utilizzare i gruppi jihadisti come strumenti di guerra asimmetrica contro l’India. Questa strategia era in grado di portare grandi vantaggi come operazioni low-cost, alta visibilità e, soprattutto, basso rischio politico (c.d. plausible deniability, la capacità di un attore di negare in modo credibile la propria responsabilità in operazioni illegali o controverse, nonostante sia il mandante). Questa strategia si inserisce in una strategia più ampia, quella della proxy war: una guerra per procura, combattuta senza avviare una guerra convenzionale tra i due stati. Questo punto per il Pakistan era ed è centrale: sostenendo queste milizie, può condurre una guerra a bassa intensità contro l’India. Riesce così ad evitare un conflitto convenzionale, che potrebbe avere conseguenze catastrofiche, dato che entrambi i paesi sono dotati di armi nucleari.
Le conseguenze di questa strategia sono catastrofiche, soprattutto per quanto riguarda la sicurezza della regione e la jihad internazionale.
La popolazione del Kashmir è sempre più esposta alla radicalizzazione e il conflitto si è progressivamente trasformato in uno dei principali fronti della jihad internazionale, riuscendo a reclutare combattenti provenienti anche da altri paesi. Simultaneamente, la continua militarizzazione della regione potrebbe portare ad una escalation militare, con il rischio concreto di una escalation nucleare.
Continuando a supportare gruppi terroristici, l’ISI sta trasformando il conflitto in una minaccia non solo regionale ma anche globale. Da un conflitto bilaterale tra India e Pakistan, il conflitto sta destabilizzando una regione sempre più ampia e, infatti, l’operazione Sindoor dello scorso 7 maggio è la dimostrazione lampante.
Il sostegno a gruppi terroristici da parte dell’ISI non è da sottovalutare: non si tratta più di una strategia per deteriorare l’India e annettere il Kashmir al territorio pakistano. Si tratta di un vero e proprio moltiplicatore d’instabilità che potrebbe essere in grado di portare ad una crisi globale difficile da controllare e risolvere.
La comunità internazionale non può continuare a stare in silenzio di fronte ad una minaccia di tale portata, nonostante paesi come gli Stati Uniti e la Cina abbiano relazioni e alleanze strategiche con il Pakistan. Il silenzio è pericoloso perché rischia di legittimare la proxy war pakistana e la conseguente normalizzazione di questo tipo di conflitto porterebbe ad un’instabilità non più regionale, ma globale. L’indifferenza di oggi diventerà corresponsabilità domani, e se in Kashmir il silenzio viene scambiato per neutralità, la comunità internazionale ha il dovere di agire.
Come ammoniva Tacito:
Solitudinem faciunt, pacem appellant.
Tacito
ma in questo caso, il deserto può trasformarsi nell’epicentro di una catastrofe addirittura nucleare.